Campo di prigionia Austroungarico di Mauthausen

  • Storia

    Il campo di prigionia austroungarico di Mauthausen, esistente già prima della sua più nota "versione" sotto il Nazismo nella Seconda guerra mondiale ed ancora privo dei famigerati forni crematori e camere a gas, venne fatto costruire dalle alte gerarchie militari austriache per ospitare una moltitudine di prigionieri in quanto le ottimistiche previsioni dei generali davano la vittoria sulle truppe nemiche sicura e veloce.
    Il campo era costituito da baracche in legno ed era delimitato da reticolati. Le baracche ospitavano separatamente ufficiali e truppa; chi era privo di mezzi ed aiuti non riusciva a comprare all’interno del campo quelle derrate che servivano ad integrare il sempre più scarso rancio. I problemi si acuirono verso la fine del conflitto, quando anche gli stessi austriaci si trovarono a dover far fronte alla mancanza di cibo. I pacchi viveri spediti dai congiunti dei prigionieri attraverso la Croce Rossa svizzera arrivavano con difficoltà e spesso manomessi.

    Nel corso del conflitto i militari italiani internati nei campi di concentramento dell’Impero austro-ungarico ed in Germania furono complessivamente circa 600.000, dei quali quasi la metà catturati nelle giornate della rotta di Caporetto. La maggioranza dei prigionieri italiani vennero inquadrati nelle cosiddette “Compagnie di Lavoro”, costretti a svolgere pesanti attività senza avere il conforto di un vitto ed un trattamento adeguato. I ventimila ufficiali internati godettero, salve rare eccezioni, di un trattamento diverso e più accettabile che permetteva migliori probabilità di sopravvivenza.
    La truppa internata viveva in condizioni assai precarie e pressochè dimenticata dalla madrepatria poiché il passaggio dallo stato di combattente a quello passivo di prigioniero era giudicato da Cadorna e dai vertici militari italiani come un fatto negativo, se non addirittura una scelta voluta. Nemmeno sotto Diaz cambiò il giudizio dei vertici militari sui prigionieri di guerra e, a differenza degli alleati, si continuò a pensare che la prigionia non fosse l’effetto naturale di una battaglia perduta ma anzi imputabile allo scarso spirito bellico dei militari catturati.
    Le prime conseguenze furono il mancato invio di generi di conforto; il clima, le malattie,
    gli stenti fecero il resto. Il trattamento riservato dai custodi ai prigionieri italiani non fu certo dei migliori ma è eccessivo pensare che l’alto tasso di mortalità registrato nei campi di prigionia fosse causato solo da questo. Il parlamento austriaco non sottovalutò l’eccessiva mortalità degli internati italiani ed esaminò con molta attenzione casi come quello di Milovice e di Mauthausen tentando in qualche modo di porvi rimedio.
    Il valore dimostrato dai combattenti italiani che vennero catturati fu totalmente e volutamente ignorato dall’autorità e dall’opinione pubblica, influenzata da una campagna di stampa che cercava di arginare il fenomeno della diserzione peraltro comune ad altri eserciti. D’Annunzio ed il Comando Supremo bollarono i nostri militari catturati con il crudele epiteto di “imboscati d’oltralpe”. I numeri sono drammatici: se su 580.000 militari di truppa ne perirono 100.000, dei 19.500 ufficiali prigionieri ne morirono solo 550. La percentuale assai sbilanciata è la più chiara testimonianza del trattamento diverso riservato a questi ultimi. Impedendo od ostacolando l’invio di pacchi di viveri ed aiuti da parte delle famiglie, il governo italiano divenne dunque corresponsabile della morte per stenti di decine di migliaia di nostri connazionali. D'altronde le autrorità austroungariche non avevano i mezzi necessari per far fronte ad una simile emergenza, mancando i mezzi di sussistenza per i propri stessi militari impegnati al fronte.

    Un'interessantissima testimonianza sulla vita nel campo di Mauthausen è stata fornita da un ufficiale medico, Francescantonio Daniele Michele, italiano emigrato negli Stati Uniti che, una volta rimasto vedovo, era tornato in Italia come richiamato allo scoppio delle ostilità con l’Austria-Ungheria. Catturato dopo Caporetto, per le sue competenze mediche non venne liberato ma fu internato a Mauthausen. Qui riuscì ad entrare in possesso di una macchina fotografica, una Kodak vest pocket in uso tra i combattenti, e poté così documentare la situazione reale del campo e della vita dei prigionieri; liberato poco prima della fine del conflitto, il medico nascose nella fodera di una valigia le numerose fotografie scattate clandestinamente nel campo e fu in grado di portarle in Italia. Singolare e sconcertante l’analogia fra lo sguardo disperato dei prigionieri di guerra italiani e l’espressione dipinta sul volto degli “ospiti” dello stesso campo nel 1945.
    La testimonianza del dottor F.M. Daniele venne deposta nel 1923 in Ohio dove l'uomo era tornato, e fu pubblicata in Italia nel 1932 con il titolo Calvario di Guerra per i tipi della Alpes editore. Daniele morì nel 1957 negli Stati Uniti, avendo già pubblicato per la Zanichelli Rime vecchie e nuove nel 1930 e Yankee Faith and Other Stories nel 1935.

    Fonti, fotografie e resoconti del dott. Daniele sono reperibili a questo link: http://www.picocavalieri.org/pubblicazioni_altre/mauthausen_1918.pdf


    Nel Fondo "Guido Rossi", Busta 1, Fascicolo 1 conservato presso l'Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea - ILSREC - di Genova, sono reperibili quattro banconote emesse dal campo austroungarico di Mauthausen il 01/05/1918 e fornite ai prigionieri per l'acquisto di alimenti presso le mense del complesso.