Data di nascita : 04/05/1862
Data di morte: 22/03/1945
CAVIGLIA, Enrico. - Nato a Finale Ligure (allora Finalmarina), in provincia di Savona, il 4 maggio 1862 da Pietro e da Antonina Saccone in una famiglia di naviganti e commercianti di media fortuna, fu allievo del Collegio militare di Milano e poi dell'Accademia militare di Torino. Tenente di artiglieria nel 20 reggimento nel 1884, fu in Eritrea nel 1888-89; frequentò quindi la scuola di glierra entrando nel corpo di Stato Maggiore come capitano. All'inizio del 1896 ottenne di essere nuovamente destinato in Eritrea, dove raggiunse il comando del gen. O. Baratieri il 28 febbraio e assisté alla battaglia di Adua il 1° marzo; con un tratto caratteristico del suo fiero carattere, per essere scampato al disastro chiese di essere sottoposto a un'inchiesta che lo liberò da ogni ombra di addebito. Rimase in Afirica nel 1896-97, distinguendosi nell'operazione contro i dervisci sudanesi, poi, tornato in Italia, fu addetto al comando di divisione di Catanzaro. Qui si occupò nel tempo libero di arte (pubblicò nella Rassegna d'arte di C. Ricci, III, [1903], pp. 51-57 e 189 s., due articoli su La Roccella del vescovo di Squillace), e dei problemi della regione calabrese analizzando sulla Nuova Antologia (1° ott. 1905, pp. 449 ss.) la situazione disperata dei contadini e la degradazione progressiva del territorio, chiedendo l'esproprio dei latifondisti assenteisti, la sistemazione delle pendici boscose e dei corsi d'acqua, la bonifica delle zone paludose e malariche.
Maggiore nel 1901, l'anno seguente fu nominato addetto militare straordinario a Tokio con l'incarico di seguire gli sviluppi della guerra russo-giapponese in Manciuria. Dal 1905 al 1911 fu addetto militare a Tokio e Pechino, approfittando dell'occasione per studiare le civiltà dell'Estremo Oriente e conoscere popoli e regioni; rientrò in Italia attraversando a cavallo l'Asia dalla Cina al Mar Nero, con un'impresa sportiva degna di nota, e condensò poi la conoscenza della civiltà asiatica in diversi articoli per la Nuova Antologia (16 luglio 1910, pp. 348 ss.; 16 giugno 1912, pp. 633 s.; 1° ag. 1912, pp. 432 s.), oltre che nelle relazioni allo Stato Maggiore. Fu quindi addetto al comando del X corpo d'armata di Napoli (era tenente colonnello dal 1908) e nel 1912 fu in Libia, collaborando al Corriere della sera con articoli sulla costituzione geologica della costa tripolina, sulle acque del sottosuolo e sull'avvenire agricolo della regione costiera. Venne poi destinato all'Istituto geografico militare di Firenze, di cui divenne direttore in seconda nel 1914, dopo la promozione a colonnello. Maggior generale nell'estate 1915, assunse il comando della brigata "Bari" impegnata sul Carso nei combattimenti di Bosco Lancia e Bosco Cappuccio. Iniziava così la sua rapida ascesa ai più alti comandi, compiuta tutta alla testa di unità di prima linea, senza la relativa sicurezza degli Stati Maggiori.
Durante settantacinque giorni consecutivi, nell'autunno 1915, il C. condusse la sua brigata nei disperati combattimenti del Carso, perdendo 6.500 uomini (più di quanti ne aveva all'inizio). Sin dal prinio momento confermò quel suo rigido senso del dovere, che fece sì che comandasse assalti sanguinosi senza prospettiva di successo, e lo stimolò, alla continua ricerca di grandi e piccoli miglioramenti tattici che dessero la possibilità di guadagni anche limitati e permettessero di risparmiare la vita dei soldati, per i quali ebbe sempre un profondo rispetto e attaccamento. Nella riorganizzazione dell'esercito della primavera 1916 ebbe il comando della 29ª divisione, con la quale lasciò nel giugno il fronte dell'Isonzo per concorrere a fermare l'offensiva austriaca dal Trentino. Il suo comportamento gli valse allora la nomina a cavaliere dell'Ordine militare di Savoia. Rimase sull'altopiano di Asiago fino al giugno 1917, prendendo parte anche alla battaglia dell'Ortigara di cui pure aveva decisaipaente criticato l'impostazione.
Nel luglio 1917 ricevette il comando del XXIV corpo d'armata schierato lungo l'Isonzo, che con le divisioni 47ª e 60ª doveva passare di forza il fiume e penetrare sull'altopiano della Bainsizza nel quadro di quella che fu detta l'undicesima battaglia dell'Isonzo. Una preparazione accurata e lo sfruttamento della sorpresa permisero al XXIV corpo di passare il fiume, la mattina del 19 agosto con parte delle truppe, poi, dopo una prima manovra di fianco che spazzò via la difesa austriaca, il 20 con le altre forze, dando inizio a una rapida penetrazione nell'interno Una nuova manovra laterale ampliò lo sfondamento, provocò la caduta del monte Oscendrik e aprì la via al II corpo d'armata schierato più a sud. Il 22 agosto cadde anche lo Jelenik e dinanzi al XXIV corpo si creò un vuoto nello schieramento austriaco. La mancanza di riserve fresche (L. Cadoma e L. Capello non avevano previsto un così netto successo) impedì lo sfruttamento strategico del vantaggio e diede agli Austriaci il tempo di ricostituire la loro linea. Tra il 25 e il 28 agosto la spinta delle truppe del C. si esaurì al vallone di Chiapovano: non si era avuta la rottura del fronte austriaco, ma un notevole successo tattico, evidenziato da guadagni territoriali insolitamente ampi e dal rapporto tra le perdite del XXIV corpo (6.400 tra morti, feriti e dispersi, su una forza di quasi 100.000 uomini) e quelle inflitte agli Austriaci (11.000 prigionieri e 150 cannoni, oltre ai morti e feriti). Si trattava della maggior vittoria italiana del 1917, forse la più interessante fra tutte quelle italiane per l'uso della sorpresa e della manovra su scala inusuale nella guerra di trincea.
Il C. ebbe il comando dell'VIII corpo d'armata sul Piave, poi, dal, febbraio al giugno 1918, del X corpo della 1ª armata sull'Astico. Il 15 giugno 1918 l'intervento dell'artiglieria del suo corpo permise al contiguo corpo d'armata inglese della 6ª armata di respingere l'attacco austriaco. Subito dopo il C. fu destinato a sostituire il gen. G. Pennella alla testa dell'8ª armata sul Piave, che non aveva retto all'offensiva austriaca, e si diede a riordinare truppe e comandi. Si palesava intanto la crisi degli Imperi centrali e il governo italiano, fino allora sostenitore della difensiva a oltranza, cominciava a chiedere al gen. A. Diaz un'offensiva risolutrice prima dell'inverno. A fine settembre il col. U. Cavallero, capo dell'ufficio operazioni del Comando Supremo, stese per Diaz e Badoglio il piano di un'offensiva dell'8ª armata. Il C. lo approvò, ma chiese e ottenne l'ampliamento del fronte d'attacco fino ai ponti di Vidor a nord e alle Grave di Papadopoli a sud, per sfruttare la prevista superiorità di forze con una molteplicità di tentativi, tenendo conto delle difficoltà create dalle prossime piene autunnali. Complessivamente erano disponibili per l'offensiva 23 divisioni di fanteria e 4 di cavalleria, ripartite in tre armate (la 12ª sotto comando francese, la 10ª sotto comando inglese e l'8ª che avrebbe avuto il ruolo maggiore), inizialmente sotto il comando unico di Caviglia. Restava da prendere la decisione finale dell'offensiva; il precipitare degli avvenimenti sul fronte francese, la crisi ormai palese dell'Austria-Ungheria e l'insistenza di V. E. Orlando decisero Diaz e Badoglio ad attaccare.
La battaglia, che avrebbe preso il nome di Vittorio Venetos, iniziò il 24 ott. 1919 con attacchi infruttuosi della 4ª armata sul Grappa. La piena del Piave costrinse a rinviare il gittamento dei ponti alla notte tra il 26 e il 27, e poi spazzò via la maggior parte di quelli costituiti, isolando le teste di ponte di Pederobba e di Semaglia. Il C. spostò allora le sue riserve a sud, le fece passare sui ponti delle Grave di Papadopoli, e risalire a nord il 28, provocando il crollo del dispositivo di difesa austriaco. Il 29 ottobre l'8ª armata passò in forze il Piave e penetrò in profondità realizzando una rottura Strategica, facilitata dalla crisi morale e politica delle unità austro-ungariche. Lo stesso giorno il comando nemico chiese di aprire le trattative di resa, prolungate poi sino a permettere alle truppe italiane di arrivare a Trento e Trieste. La vittoria era stata certamente permessa dalla netta superiorità italiana di mezzi e ingrandita dalla progressiva disgregazione dell'esercito nemico; non era però piccolo merito per il C. averla perseguita con ampiezza di vedute e fermezza.
Cavaliere di gran croce dell'Ordine di Savoia, senatore, tenente generale con rango di comandante d'armata e poi nel novembre 1919 generale d'esercito (il massimo grado della gerarchia militare), nel dopoguerra il C. si trovò a far parte del ristretto gruppo dei "generali della vittoria", proiettati sulla scena politica con un prestigio e un peso che le forze politiche non potevano trascurare. Le grandi responsabilità avute durante la guerra gli davano la certezza di dover chiedere e ottenere un ruolo di primo piano nella vita nazionale anche in tempo di pace. Ma la sua capacità e cultura politica (come traspare da numerosi discorsi e proclami del 1918-19, tra cui il Discorso di Finalmarina tenuto il 20 sett. 1919 e pubblicato in opuscolo lo stesso anno a Milano) gonerano tuttavia pari alla ricchezza di altri suoi interessi culturali.
Un forte paternalismo genericamente populista, che nasceva da un giusto rispetto per il valore delle truppe (ma non gli impediva di biasimare duramente le "abitudini spenderecce" contratte dagli operai grazie ai salari di guerra, e i miglioramenti nell'alimentazione dei contadini), si accompagnava a un giudizio sprezzante sulla classe dirigente, nei suoi circoli politici come in quelli economici. Solo la media e piccola borghesia, che aveva sofferto e pagato in guerra, e i giovani ufficiali, che ne erano la migliore espressione, aprivano alla speranza il cuore del C., più volte tentato dall'idea di proporsi loro come capo perrinnovare il paese, ma raffrenatodalla sua ripugnanza per la politica organizzata. Questa ripugnanza si estendeva anche all'estremismo nazionalista emergente, di cui biasimava gli slanci di rivolta; il rispetto e l'obbedienza per l'autorità costituita, anche se non stimata. erano infatti per il C. un dogma irrinunciabile. Ciò finiva col fare di lui un isolato, incapace com'era di sviluppare una linea politica che andasse oltre un nobile moralismo, e sempre pronto al richiamo all'ordine da parte delle autorità riconosciute.
Il 18 genn. 1919, in occasione di un rimpasto del governo Orlando, il C. fu nominato ministro della Guerra, col compito di impostare un programma di smobilitazione che contemperasse le esigenze della politica, dell'economia e del popolo stanco di guerra. Seppe pubblicizzare abilmente i provvedimenti decisi a favore dei congedati, e occuparsi attivamente degli ufficiali di, complemento cui riservò un trattamento privilegiato (indennità di congedamento, mantenimento in servizio a domanda, avvicinamento alla sede per professionisti e studenti universitari). Dinanzi allo sfavorevole andamento delle trattative di Parigi si assunse la grave responsabilità di arrestare la smobilitazione: due milioni di uomini alle armi sembravano necessari per sostenere Ierichieste di V. E. Orlando.e di G. S. Sonnino. Alla fine di giugno, quando F. S. Nitti successe a Orlando, la spesa mensile per l'esercito era salita a due miliardi (contro i 1.400 milioni di lire dell'autunno 1918) e tutto il paese chiedeva che la smobilitazione fosse portata avanti con decisione. Nitti trattò direttamente con Diaz e Badoglio, li trovò favorevoli a una politica di normalizzazione ed economie, e concordò con essi la sostituzione del C. con il gen. A. Albricci.
Sei mesi più tardi fu Diaz a fare a Nitti il nome del C. per comandare le truppe che fronteggiavano la sedizione dannunziana di Fiume, dovendo Badoglio, che aveva assolto questo incarico fino allora, rientrare a Roma perché nominato capo di Stato Maggiore dell'esercito. Il 21 dic. 1919 il C. assunse i poteri di commissario straordinario per la Venezia Giulia e il comando dell'8° armata, e si diede subito a riordinare le truppe, la cui disciplina lasciava a desiderare. Provvide poi a introdurre nelle relazioni con G. D'Annunzio una nuova fermezza, diminuendo al medesimo tempo la tensione al confine italo-iugoslavo con la parziale smobilitazione dell'8ª armata. Nel novembre 1920, quando il governo Giolitti firmò con gli Iugoslavi il trattato di Rapallo che risolveva la questione di Fiume, il C. poteva garantire di avere in pugno la situazione; e infatti condusse a termine lo sgombero dei dannunziani con prudente efficienza e minimi incidenti negli ultimi giorni di dicembre. Il suo comportamento permise al paese e all'esercito di chiudere senza lacerazioni una brutta crisi; tuttavia le clamorose proteste dell'estremismo nazionalista (che giunse ad accusarlo di un "Natale di sangue") e le reazioni di molti gruppi di ex combattenti indussero il C. a prendere le distanze dalla politica di Giolitti, con un inabile e ingeneroso tentativo di scindere le sue responsabilità.
Il 17 luglio 1921 disse infatti in Senato di aver marciato contro D'Annunzio solo perché ingannato dal governo sulla reale portata delle concessioni territoriali alla Iugoslavia, parlò di una vera "beffa all'americana" e confessò di aver portato a Fiume "un'aspide" anziché un accordo vantaggioso. Era un rovesciamento di posizioni troppo brusco per essere credibile, che dimostrava con quale incertezza il C. si muovesse sulla scena politica; il risultato infatti fu di marcare il suo isolamento. Negli anni successivi la parte da lui avuta nella repressione dell'avventura fu progressivamente dimenticata; il fascismo però vietò nel 1925 la pubblicazione di un suo volume di memorie e documenti su Il conflitto di Fiume (che fu poi ampiamente rimaneggiato nel 1936 e dato alle stampe dagli eredi a Milano nel 1948).
Dal 1921 al 1925, come comandante designato di una delle quattro armate e membro del Consiglio dell'esercito (l'organo che in quel periodo costituiva il vertice decisionale dell'apparato militare), il C. ebbe una responsabilità di primissimo piano nella politica militare italiana. Non prese parte attiva al dibattito sulla riorganizzazione delle forze armate, allineandosi sulle posizioni di Diaz e di G. Giardino, fautori dichiarati di un ritorno alle strutture prebelliche; si trovò d'accordo con i suoi colleghi anche nel provocare la rimozione di Badoglio dalla carica di capo di Stato Maggiore dell'esercito nel gennaio 1921 e nel negargli poi un comando degno, del suo rango, quasi a scontare un'ascesa che poteva dare ombra agli altri "generali della vittoria". Tra l'aprile e l'ottobre 1922 compi un viaggio ufficiale nell'America latina col compito di distribuire decorazioni agli emigrati italiani, e l'incarico ufficioso di saggiare la possibilità di nuove esportazioni per l'industria bellica italiana.
Non sono note particolari prese di posizione del C. dinanzi al fascismo e alla marcia su Roma. Ma tutto lascia credere che egli accettasse e sostenesse il governo Mussolini, per motivi quali quelli che esporrà in Senato il 5 dic. 1924: "Io sono favorevole alle idee originarie del fascismo che sono le idee dei combattenti di tutti i partiti; idee maturate nelle trincee e che ebbero già il consenso dell'Italia sfiduciata davanti allo sfacelo dei poteri statali, idee che si riassumono nella necessità che il governo sia forte, che sia mantenuta la disciplina di tutti i funzionari e di tutti i servizi dello Stato e che l'Italia, rispettata e ascoltata all'estero e perciò necessariamente pacificata all'intemo, veda restaurato l'impero della. legge da parte di un governo, che tale impero faccia rispettare e lo rispetti per il primo esso stesso". Nel momento in cui così si esprimeva, il C. annunciava anche di aver rettificato il suo giudizio sul fascismo: insieme con alcuni altri generali di chiara fama, si asteneva dal confermare la fiducia al governo Mussolini, che gli sembrava ormai un ostacolo per la pacificazione degli animi e il ritorno all'ordine. Il governo, forte dell'appoggio della maggioranza del Senato e dei capi militari, rimase al potere e si avviò alla dittatura aperta, senza che il C. spingesse oltre la sua opposizione.
Nei primi mesi del 1925 il C. diede la sua adesione alla campagna che Giardino, con il consenso di quasi tutti i generali più noti, scatenò contro il progetto di ristrutturazione dell'esercito portato avanti dal gen. A. Di Giorgio, ministro della Guerra. La campagna culminò in un clamoroso dibattito in Senato (l'ultimo momento di vitalità del Parlamento) in cui l'opposizione decisa di tutti i "generali della vittoria" (opposizione al progetto e non al governo, era precisato) indusse Mussolini ad abbandonare Di Giorgio e ad assumere personalmente il ministero della Guerra. Per dimostrare concretamente l'interesse del regime per le forze armate, e nel medesimo tempo minare la posizione dei generali che lo avevano sfidato, Mussolini ricorse a Badoglio, l'unico tra i grandi generali che non avesse partecipato alle polemiche perché, emarginato dai colleghi, aveva accettato il posto di ambasciatore in Brasile. Lo nominò quindi capo di Stato Maggiore generale, con un potere di comando sull'esercito più ampio che in passato (4 maggio 1925). Contro questa soluzione della crisi, che lasciava prevedere l'allontanamento suo e degli altri colleghi dal vertice dell'esercito, il C. si batté energicamente in pubblico e in privato, con un discorso in Senato del 5 maggio che era una vera e propria autocandidatura alla direzione delle forze armate e con un passo diretto presso Mussolini. In questa occasione non esitò a dare un giudizio estremamente duro sul collega ("...egli fu il principale responsabile di Caporetto, dove si condusse come un caporale... Per l'avvenire vi dico che Badoglio sarà certamente la rovina dell'esercito, della monarchia e dell'Italia" - così almeno E. Canevari riferisce le parole del C.), e a diffondersi in accuse sulla carriera di Badoglio troppo acri e insistite per non apparire (come infatti erano) frutto in gran parte di rancori personali. Mussolini non ne tenne conto e Badoglio ebbe via libera per estromettere il rivale da tutte le cariche di responsabilità ricoperte nell'esercito, sostituendolo come comandante designato d'armata e come membro del Consiglio dell'esercito. Non si trattava di una discriminazione di natuta politica (gli atteggiamenti di critica al fascismo del C. erano stati occasionali, parziali e contraddittori), ma di un momento della lotta per il controllo dell'esercito che, allora come in seguito (basti pensare alla rivalità tra Badoglio e Cavallero), non essendo legata a reali differenze di orientamento politico o di dottrina militare, assumeva aspetti esasperatamente personalistici.
Dalla metà del 1925 in poi il C. fu quindi costretto a contentarsi del ruolo di "generale della vittoria": fu cioè colmato di onori (la nomina al nuovo grado di maresciallo nel giugno 1926, il collare della SS. Annunziata nel dicembre 1929) da dividere con Badoglio e gli altri grandi generali, ed ebbe assicurato un ruolo di tutto prestigio nel regime, ma fu privato di ogni responsabilità concreta nella politica militare italiana. Accettò il suo emarginamento con dignità e contenuta amarezza, senza cedere alla tentazione di riguadagnare terreno trescando negli ambienti fascisti o cercando facili successi di pubblicità. Fedele al suo alto concetto di disciplina, mantenne verso il regime un atteggiamento pubblico di assoluta lealtà, che egli stesso così motivava in una lettera del 14 nov. 1930: "Tutti sanno che io non mi occupo di politica. Per me il capo del governo è stato scelto dal re; esso è il capo della gerarchia, di tutti i funzionari civili e militari, e gli debbo rispetto e riverenza, come si debbono a chi sono affidate le sorti della nazione. Mancherei al nido dovete, s'io cercassi di creargli imbarazzi". Nella vita privata il C. si conduceva invece con una certa libertà, esercitando una critica talora aspra su determinati aspetti del regime, e mantenendo rapporti di amicizia con alcuni antifascisti dichiarati.
In una lettera del 18apr. 1932, intercettata dalla polizia, così gli scriveva dall'esilio C. Sforza: "Per lei, oltre il rispetto, ho con tutti gli italiani liberi riconoscenza perché il suo nome, che appartiene ai nostri figli, è rimasto puro e intatto tra tante cadute nel fango. Il giorno della reazione popolare rischieremo veder gli ideali nazionali rinnegati sol perché una banda osò identificarsi con essi. Quel giorno, additar un Caviglia che rimase solitario e sdegnoso potrà salvar da crisi dolorosa". Questa e analoghe testimonianze, e, lo stesso Diario del C. (pubblicato postumo a Roma nel 1952, con evidenti tagli) mettono in evidenza come egli accettasse lealmente il regime fascista, più per disciplina che per convinzione o interesse. Il suo atteggiamento relativamente indipendente e critico, anche se in privato e non in pubblico, nel clima dell'epoca bastava a farlo passare per oppositore molto più deciso di quanto non fosse. Ma in effetti la sua idea della vita politica era estranea ad una opposizione di fondo al fascismo. Dalla totale fedeltà monarchica il C. derivava una concezione dello Stato nettamente gerarchico e autoritario, basato sulla obbedienza assoluta alla autorità costituita, sulla disciplina e il governo forte, sul combattentismo e la politica di potenza, venato di paternalismo ma fondamentalmente antipopolare.
La forzata inattività: diede al C. l'occasione per tornare criticamente sulla sua esperienza bellica, con tre volumi di studi e memorie apparsi tra il 1930 e il 1934 nella collezione sulla storia della prima guerra mondiale diretta dal gen. A. Gatti per l'editore Mondadori.
Nel primo di questi volumi, La battaglia della Bainsizza (Milano 1930), si proponeva di rivendicare il valore delle truppe italiane e, se ben comandate, la loro efficienza, in polemica contro la tendenza a scaricare sui soldati la responsabilità di tutte le deficienze della guerra italiana. L'esaltazione della sua opera di comando in questa battaglia, di cui fu l'indiscusso protagonista, si accompagnava a un giudizio critico, ma non negativo, sull'operato di Cadorna. Questo aspetto era sviluppato nello Studio sulla direzione politica e il comando militare nella grande guerra, in appendice al volume, che si segnalava per un'ostentata indipendenza rispetto alla versione dominante (ad es. nel rifiuto di addebitare alla politica giolittiana la responsabilità dell'impreparazione militare italiana).
Nel successivo volume, La dodicesima battaglia: Caporetto (Milano 1933), accanto alla bella rivendicazione del valore delle truppe (in polemica contro la versione ufficiale che riversava le colpe della sconfitta sui soldati e il disfattismo) e alla sottolincatura talora eccessiva della sua azione nella ritirata dall'Isonzo al Piave, si sviluppava la polemica con Badoglio, presentato implicitamente come il responsabile della sconfitta. Un estratto di alcune pagine sulla carriera di Badoglio, in cui il risentimento personale portava il C. a un'interpretazione forzata ed eccessiva dei fatti, non fu compreso nell'edizione del volume, ma inviato al re e a Mussolini e fatto circolare negli ambienti ostili a Badoglio, che non si curò di rispondere.
Queste caratteristiche si ritrovano nel terzo volume, Le tre battaglie del Piave (Milano 1934), che mirava a svalutare l'operato del Comando Supremo di Diaz e Badoglio, specie in relazione alla battaglia di Vittorio Veneto. Come scrisse P. Pieri, il libro "è ricco d'osservazioni interessanti, di notizie a volte preziose, ma scarso di documentazione e con un tono spesso cattedratico, accompagnato talora da una non adeguata valutazione dell'opera altrui". Più ancora del precedente, il volume scatenò violente polemiche negli ambienti ufficiali, che accusarono il C. di svolgere opera antinazionale denigrando la guerra italiana e il Comando Supremo. Non sappiamo se per parare questi attacchi o per il maturare di un'intima convinzione, il C. si rivolgeva a Mussolini in una lettera del 13 dic. 1934 con toni inconsueti di adesione: nel volume sulle battaglie del Piave, scriveva, "il mio scopo principale è di mettere in evidenza il valore del soldato italiano e di troncare la tendenza storica dei nostri comandi - da Novara a Adua a Caporetto - a gettare sulle truppe la responsabilità delle proprie manchevolezze. È questa un'opera, vostra eccellenza vorrà ammetterlo, eminentemente fascista: rompere una deplorevole tradizione di "Piccolo mondo antico"; dare ai comandi un dignitoso senso di fedeltà alle truppe; ristabilire la fiducia fra gli uni e glialtri. Vostra eccellenza dà l'esempio, nella sua quotidiana comunione e nei suoi contatti con le organizzazioni politiche economiche e militari italiane, del dovere di chi comanda verso i propri dipendenti... Poiché il destino volle che l'Italia avesse durante la guerra ed ora due governi tanto differenti - per energia, decisione, forza di volontà e indipendenza politica - così, sarebbe stato meglio per noi che allora avessimo il governo di vostra eccellenza".
La guerra d'Etiopia fu accolta dal C. con un entusiasmo limitato solo dal suo rancore verso Badoglio; secondo le informazioni di polizia, spiegava in ogni occasione che la vittoria era "assolutamente merito esclusivo di Mussolini". Nel settembre 1939, quando l'inizio della seconda guerra mondiale rivelava il ritardo e la crisi nella riorganizzazione e preparazione delle forze armate italiane, fu lo stesso Mussolini a incaricarlo di un'ispezione alla frontiera occidentale, il primo incarico ufficiale di cui abbiamo notizia dal 1925. Poco dopo, però, il C. avallava con una prefazione un volume dello storico suo amico A. Cappa, La guerra e la sua condotta politica e strategica nel XX secolo (Milano 1940), che esaltava la condotta democratica della guerra anglo-francese nel 1914-18 in contrapposizione a quella autocratica e perdente degli Imperi centrali, con implicazioni politiche assai chiare nel momento in cui l'Italia fascista scendeva in campo a fianco della Germania nazista. Convinto sostenitore dell'amicizia italo-francese, ancora nel dicembre 1941 il C. tentò di riproporla come base per una pace di compromesso in un articolo, inviato a Mussolini per l'approvazione alla stampa che naturalmente non ci fu.
Si trattava, anche se non riusciva a tradursi in una linea di condotta politicamente chiara, della manifestazione di quel crescente e ambiguo dissenso che non era solo del C. ma di buona parte dell'alta casta militare. Questo dissenso nasceva dalle contraddizioni tra gestione della politica estera, stato dell'assetto delle forze armate, limiti oggettivi della realtà economica del paese e dell'indirizzo autarchico ai fini della mobilitazione bellica, e opposizione alla guerra di larghi strati e ceti; e investiva gli stessi obiettivi politici della guerra, in quanto suscettibili di mettere in pericolo la sperimentata struttura moderata dello Stato italiano.
Dinanzi al precipitarè della situazione italiana per le sconfitte del 1942-43, il C. si illuse ancora sperando che Anglo-americani e Tedeschi potessero accettare l'uscita dell'Italia dal conflitto e la sua neutralizzazione. Fu sorpreso così dagli avvenimenti dell'estate 1943, e fu critico deciso dell'operato del governo Badoglio senza però riuscire a capirne il nodo cruciale.
Se impotenza e impreparazione di fatto dei partiti antifascisti avevano dato spazio all'iniziativa monarchica del colpo di Stato, che tentava così di egemonizzare il cresciuto dissenso delle alte caste economiche e militari verso la guerra per salvaguardare le strutture tradizionali dello Stato insieme con le macerie dell'assetto gerarchico e corporativo fascista, fu poi proprio l'iniziativa monarchica a creare, non volendo, uno spazio d'azione alle forze antifasciste. Unica prospettiva militare possibile del 25 luglio era infatti l'armistizio; ma la sua maggiore o minore onerosità di condizioni diveniva irrilevante di fronte alla ineluttabilità di una scelta politica. Essendo irreale una immediata, o celere, occupazione della penisola da parte delle forze anglo-americane, ed essendo la dislocazione delle truppe italiane dispersa, né solo sull'area metropolitana, e frammista in quest'area con notevoli raggruppamenti tedeschi, le forze armate italiane o si proponevano una lotta di tipo popolare, di militari e civili, che apriva però prospettive politiche innovative e democratiche; o andavano incontro ad un ampio dissolvimento, anche con casuali resistenze simboliche, postulando un'eredità di lotta ancor più popolare e democratica. La fuga dell'8 settembre fu perciò l'oggettiva incapacità di operare questa scelta.
Il C. giunse a Roma l'8 sett. 1943, e il giorno seguente, apprendendo della precipitósa fuga del re e di Badoglio, tentò di coprire il vuoto di potere assumendo responsabilità di governo. In una situazione dranunaticamente confusa, non riuscì né a imporre né a seguire una linea di condotta. coerente, e finì col facilitare la resa ai Tedeschi, senza rendersi conto delle conseguenze. Si ritirò poi nuovamente nella sua casa di Finale Ligure, da cui assisté agli avvenimenti del 1943-45 trasportato da sentimenti contrastanti, reso ormai incapace dalla sua formazione e dalla sua vita stessa a fare scelte precise.
Morì a Finale Ligure il 22 marzo 1945. La salma fu poi traslata il 21 giugno 1952 in un mausoleo ricavato da un antico torrione di guardia sopra Finale Ligure, con una solenne cerimonia alla quale intervennero il presidente L. Einaudi e Orlando come oratore ufficiale.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 389 bis/R, fasc. Caviglia (ne provengono le lett. cit. del 14 nov. 1930, 2 apr. 1932 e 13 dic. 1934, e le informazioni di polizia); Per la storia dell'81 armata, dalla controffensiva del giugno alla vittoria dell'ottobre 1918, a cura di G. Volpe, Roma 1919; F. T. Marinetti, E. C. Profilo, Piacenza 1922; C. Montù, Storia dell'artiglieria italiana, VIII,Roma 1941, pp. 2650-52; E. Canevari, La guerra italiana. Retroscena della disfatta, I,Roma 1948, ad Indicem; E. C. maresciallo d'Italia 1862-1945 (pubblicaz. celebrativa con scritti di M. Zino, G. Volpe e altri), Finale Ligure 1952; P. Pieri, Nota bibliografica, in L'Italia nella prima guerra mondiale, Torino 1965, pp. 203-16 (da aggiornare con G. Rochat, L'Italia nella prima guerra mondiale, Milano 1976); G. Rochat, L'esercito ital. da Vittorio Veneto a Mussolini, Bari 1967, ad Indicem; R. Zangrandi, L'Italia tradita, Milano 1971, ad Indicem; I.Pietra, E. C., in I grandi e i grossi,Milano 1973, pp. 49-74.