Comando II Zona operativa Liguria

  • Storia

    All’indomani dell’armistizio e con l’inizio dell’occupazione tedesca, a Savona, come nel resto dell’Italia occupata, prevale l’attesismo, determinato dall’intreccio di fattori d’ordine internazionale e nazionale.Tanto gli Alleati quanto il nascente “Regno del Sud” inizialmente diffidano della componente popolare: temono infatti ch’essa sia troppo soggetta all’influenza delle sinistre. Del resto, sul piano nazionale, la borghesia, gli industriali e la Chiesa intravvedono la necessità di favorire la nascita di una classe dirigente che, a guerra finita, sostituisca quella dei fascisti saloini evitando però, magari con il ricorso agli Angloamericani, qualsiasi rivoluzione di classe.
    Diverso e più complesso è il caso del PCI. Pur rifiutando l’idea che la liberazione sia esclusivo compito degli Alleati, la dirigenza comunista, in linea con l’Urss ma anche in ragione dell’unità antifascista, intende imprimere un’accelerazione al movimento partigiano elaborando strategie mirate. Sceglie innanzitutto di “orientare” il partigianato, affiancando ai comandanti militari i migliori tra i propri uomini in funzione di commissari politici; quindi decide di supportare le formazioni inviando in montagna almeno il quindici per cento dei militanti più validi. Per il Partito comunista, dunque, l’uscita dall’attesismo è prioritaria ed è complementare al suo nuovo ruolo di guida della resistenza nascente.
    Tuttavia questo orientamento espone il partigianato a potenziali conflittualità interne. Si profilano  scontri sia con i partigiani “apolitici”, gli ex-militari prediletti dal governo Badoglio, sia con gli irriducibile che fanno capo alla “sinistra comunista” e che non intendono rinunciare alla rivoluzione proletaria né disgiungere la lotta antitedesca e antifascista da quella di classe.
    A questo proposito, è emblematica l’intricata e tragica vicenda della “Stella Rossa”, il primo distaccamento che si forma a Savona. Esso è formato da un elevato numero di comunisti che inizialmente si stabiliscono a Santa Giulia, non lontano da Dego. Ne fanno parte, tra gli altri, Mario Sambolino, Pietro Toscano, Stefano Bori e Aldo Tambuscio. A costoro si uniscono anche militari sbandati, come Aniello Savarese e Aurelio Bolognesi. Il distaccamento rifiuta la disciplina militare e sperimenta al suo interno forme di autogoverno simili a quei microcosmi di democrazia diretta realizzati, pur provvisoriamente, in alcune bande  o  tra le repubbliche partigiane sorte nell’estate-autunno del 1944. I giovani della “Stella Rossa” intendono resistere allo sfascio dell’esercito italiano, all’attesismo diffuso di alcuni, alla cautela della dirigenza del PCI e all’indifferenza della maggioranza. Ma il distaccamento paga a caro prezzo l’aspirazione all’autonomia e il permanente “sovversivismo”. Alla vigilia del Natale 1943 è disperso dagli attacchi delle formazioni autonome dell’Esercito Italiano di Liberazione Nazionale (i badogliani dell’EILN), preoccupate di garantire nel basso cuneese accordi per il mantenimento dell’ordine pubblico presi con l’occupante.
    Il secondo gruppo partigiano si costituisce a Montenotte. È formato da ex condannati al carcere e al confino dal Tribunale Speciale (Giovanni Carai, Giovanni Aglietto ed altri) ai quali si affianca un gruppo di giovani. Il Comandante è Libero Bianchi, già volontario della Guerra di Spagna, mentre Quinto Pompili ricopre il ruolo di Commissario politico. Il terzo gruppo ha sede a Osiglia, nella Val Bormida orientale. Ne fanno parte Antonio Carai, Pierino Molinari, Angelo Miniati, Mario Tamagnone ed altri. Quattro componenti del gruppo (Pierino Ugo, Nino Bori, Renzo Guazzotti e Salvatore Cani) saranno trucidati dai tedeschi il 2 gennaio del ’44, a Bormida, presso la “Cascina Bergamotti”. Infine,  un altro gruppo di partigiani s’insedia nella zona tra Roviasca e le Tagliate, presso il “teccio del Tersè”, una costruzione servita nel passato come essiccatoio per le castagne. Il primo compito che impegna i partigiani è la raccolta di armi. Al gruppo, comandato da Gino De Marco (“Ernesto”), appartengono anche Sergio Leti detto “Gin” (il figlio di Clelia Corradini, che sarà martire della Resistenza savonese), Vincenzo Pes, Giorgio Preteni, Pietro Morachioli e Francesco Calcagno.

    A queste forze partigiane, orginariamente solo comuniste, se ne affiancano altre: gli azionisti del gruppo di Renato Boragine a Giustenice, la brigata Astengo delle valli dell’Erro e dell’Orba e la brigata “Giustizia e Libertà” della Valle Bormida, poi intitolata al martire “Nicola Panevino”; formazioni di tipo militare, come gli autonomi di “Ferrando”; nuclei armati non politicizzati come il gruppo del Comandante “Mingo” delle Valli dell’Erro e dell’Orba e la prima brigata Savona, organizzata da Giuseppe Dotta (“Bacchetta”) dalla quale si originerà la Divisione Fumagalli dell’EILN, presto in drammatico conflitto con la “Stella Rossa”.
    In autunno, a Savona, si formano anche gruppi di antifascisti che hanno l’obiettivo di agire in città. Il più importante è il Fronte della Gioventù (FdG), costituito da studenti come Giuseppe Noberasco e Settimio Pagnini e dagli operai Francesco Vigliecca e Stefano Peluffo. Questi giovani si formano sui classici della letteratura d’oltralpe, severamente proibita dalla scuola fascista. Si appassionano a letture come Martin Eden e Il tallone di ferro di Jack London o Furore di John Steinbeck; sono conquistati dai romanzi di Emile Zola e dai saggi del comunista Henri Barbusse; di nascosto, leggono anche La madre di Maksim Gor’kij e, naturalmente, il Manifesto di Karl Marx. Tutti volumi che cercano avidamente nelle biblioteche private. Nella primavera del 1944  daranno vita alle testate clandestine “La voce dei giovani” e “Democrazia” grazie a una frenetica attività tipografica e si produrranno in acrobatiche imprese di lancio dei volantini, nella diffusione di materiale proibito e di scritte murarie contro il regime. Il Fronte della Gioventù si unirà poi ai “vecchi antifascisti” e ai rappresentanti del PCI clandestino per dare origine alle SAP, istituite formalmente nel novembre del 1944 con l’obiettivo di garantire un maggior collegamento tra le azioni di sabotaggio dei ribelli in città e le imprese dei partigiani in montagna.
    Tra le formazioni di giovani antifascisti spiccano anche i Gruppi di Difesa della Donna (GDD), operativi  dall’inverno ’43-’44 e animati da Clelia Corradini (trucidata dai fascisti il 24 agosto 1944), la cui militanza è lucidamente testimoniata da Mariuccia Fava (la partigiana “Asta”).
    Fra  l’ottobre e il novembre 1943 in città e nei centri urbani della provincia le condizioni di vita si fanno particolarmente difficili. Scarseggiano gli alimenti e il costo dei generi di prima necessità aumenta. Nelle botteghe e nei mercati le merci sono praticamente introvabili e i prodotti migliori sono accaparrati dagli occupanti. Si cerca di rimediare alla penuria con il “mercato nero” che, tuttavia, rendendo libera la vendita, contribuisce a rincarare ulteriormente i prezzi delle merci. Nelle industrie mancano le materie prime e scende il livello dell’occupazione. Ad aggravare un quadro socio-economico già critico, si aggiungono i frequenti bombardamenti aerei. Di questi, il più drammatico avviene a mezzogiorno di sabato 30 ottobre, quando Savona è colpita da 156 aerei alleati. Il bombardamento distrugge parte del centro storico e dell’area portuale, provocando danni irreparabili a edifici storici pubblici e privati, 116 morti, centinaia di feriti e più di 3.000 senzatetto.
    Sul piano politico, le rinate strutture fasciste sono rafforzate dal pieno appoggio dell’organizzazione militare tedesca e dalla spietata efficienza delle SS e della Gestapo.  Le autorità fasciste tentano di alleggerire le difficoltà della guerra mediante provvedimenti volti a propiziarsi la fiducia dei lavoratori. Tra questi, s’impone agli industriali di anticipare di un mese il salario e lo stipendio dei dipendenti, nei casi di sfollamento dei loro famigliari, e si aliena loro anche il diritto di licenziare i lavoratori, che viene avocato alla Prefettura. Ma il Prefetto ha anche la facoltà di garantire ai lavoratori che si arruoleranno nella TODT, l’azienda addetta a costruire fortificazioni militari per conto dei tedeschi, trasferimenti soltanto in località italiane prossime alle loro residenze.
    A Savona, nell’ottobre ’43, il Prefetto Defendente Meda, funzionario badogliano apprezzato per certa tolleranza nei confronti dei lavoratori, viene sostituito dal famigerato Filippo Mirabelli, corresponsabile con altri gerarchi e gli occupanti tedeschi di numerosi crimini e crudeli atti repressivi. Il mese successivo Mario D’Agostino, nominato Commissario prefettizio dell’Unione lavoratori dell’industria, riesce a riformare le Commissioni interne di fabbrica. In questo scorcio del 1943 Mirabelli, per ingraziarsi gli operai, offre loro opportunità inattese. La strategia che lo muove rientra perfettamente nelle politiche del lavoro promosse dalla Repubblica Sociale Italiana soprattutto nelle città industriali.  Forzando i tratti “socialistici” del fascismo della prima ora, la RSI propaganda soluzioni anticapitalistiche che, sovente, generano disorientamento specie tra i lavoratori meno politicizzati.
    Ma i comunisti non credono che il fascismo “cambi rotta”; per questo insistono sull’abolizione delle Commissioni interne, che soppiantano con Comitati d’agitazione segreti, e sulla necessità di non abbandonare la difesa della “dignità di classe”, anche quando gli industriali si rivestono dei panni dell’antifascismo. La scelta propugnata, tuttavia, non convince del tutto quegli operai che, con l’abolizione delle Commissioni interne, temono la perdita di garanzie di tipo economico. Tra i lavoratori vendono a galla divisioni, in particolare tra chi intende lottare per rivendicazioni di tipo politico e chi ha di mira richieste di natura esclusivamente economica.
    Intanto, il Comitato Sindacale Segreto dal novembre ha predisposto una serie di agitazioni in Liguria e, ai primi di dicembre, distribuisce nelle fabbriche volantini con la richiesta di aumenti di salario adeguati al costo della vita, maggiorazioni nel razionamento dei generi alimentari e la sospensione di ogni licenziamento. Nel mese di dicembre le maggiori città del “triangolo industriale” sono percorse da agitazioni: prima è la volta di Torino, poi tocca a Genova e a Milano. Savona si muove più tardi ma lo sciopero generale, che raggiunge il suo culmine tra il 21 e il 23 dicembre, qui assume tratti peculiari.
    Gli eventi che si danno nelle fabbriche savonesi nel dicembre ’43 sono preceduti dalla scelte del comando germanico di impedire, tramite il primo rastrellamento, che i nuclei di partigiani stabilizzino sulle alture i loro insediamenti. L’obiettivo è l’area di Gottasecca (in cui si sono stanziati i partigiani della “Stella Rossa”) e la zona di Roviasca con il gruppo di Gino De Marco. Del primo nucleo fa parte Francesco Calcagno che, catturato dai Carabinieri a Quiliano il 19 dicembre, è consegnato ai tedeschi. Interrogato e torturato, è poi detenuto dal 23 al 27 nel carcere di Sant’Agostino di Savona e verrà fucilato per rappresaglia, insieme ad altre 6 vittime, il 27 dicembre al Forte della Madonna degli Angeli.
    Intanto, già dalla metà di dicembre, scendono in sciopero gli operai della Scarpa&Magnano mossi da rivendicazioni sindacali e politiche (la “cessazione delle ostilità”). Presto l’agitazione si allarga alle altre fabbriche della provincia. Il 21 dicembre ’43, giorno in cui lo sciopero assume il massimo rilievo, nelle fabbriche compaiono volantini che Zimmermann, Comandante delle SS incaricato speciale del Generale Toussant per le repressioni delle agitazioni operarie, ha fatto affiggere con la promessa che gli operai, se desisteranno dallo sciopero, potranno fruire delle concessioni già ottenute dai lavoratori genovesi. Gli occupanti, per i quali è fondamentale mantenere attiva la produzione industriale, decidono inoltre di non far suonare la sirena alle 10. Ma, a quell’ora, consistenti colonne di operai di diversi stabilimenti bloccano ugualmente il lavoro e, a Savona, si riversano su piazza XXVIII Ottobre, manifestando sotto la Federazione del Fascio. Chiedono che le autorità accolgano le richieste del Comitato Sindacale Segreto. Anche in Val Bormida il lavoro è sospeso e a Vado Ligure si tengono comizi di piazza che coinvolgono i lavoratori e la cittadinanza.
    Il 22 dicembre, il Prefetto Mirabelli interviene all’ILVA con promesse rivolte ai lavoratori “nell’alto interesse della patria” e sollecita gli operai a formare nuovamente una Commissione per poter trattare. Gli operai, istituita una delegazione di una dozzina circa di membri, si recano dal Direttore dell’Ilva per presentare una nota di rivendicazioni. Tuttavia, per discutere le richieste della Commissione, nel pomeriggio anziché Mirabelli si presenta Zimmermann, seguito dalla scorta armata. Egli invita la Commissione operaia a presentarsi ma “la commissione non si presenta”. Benché ordini la ripresa del lavoro, è ignorato dagli operai che gli dimostrano la loro avversione.
    Il 23 dicembre lo sciopero si conclude. Gli operai si disperdono tra le forze tedesche e fasciste. Gli industriali, su pressione dei tedeschi, concedono aumenti salariali del 30% ma negli animi la tensione è fortissima. Lo sciopero generale ha coinvolto contemporaneamente tutti i lavoratori  permettendo loro di ottenere un provvisorio miglioramento salariale, ma la classe operaia non ha diretto l’agitazione fino in fondo. Ha mancato l’obiettivo politico: lo sciopero generale ha mantenuto il suo specifico carattere di lotta a difesa degli interessi e della vita dei lavoratori ma non si è data quell’azione congiunta con i partigiani di montagna che, tramite il Comitato Sindacale Segreto, i comunisti avevano auspicato. I distaccamenti partigiani, ancora ridotti nel numero e privi di collegamenti con la città, non sono stati in grado di sostenere, fiancheggiandole,  le lotte operaie nelle fabbriche.
     La situazione in città è estremamente tesa. L’insofferenza per l’esito incompiuto degli scioperi, la fame, la paura dei bombardamenti e delle improvvise retate fasciste moltiplicano gli episodi di violenza. Prima dell’aprile 1944, quando il rientro in Italia di Togliatti formalizzerà la scelta decisiva del PCI di condurre la guerra al fascismo e al nazismo in accordo con tutte le forze democratiche, sul finire del ’43 nel Partito emerge la volontà di rivendicare la superiorità d’azione rispetto ad altre più tiepide componenti antifasciste, anche al prezzo di introdurre modalità di lotta più cruente. Si delineano due strategie complementari: da un lato, colpire al cuore i gerarchi fascisti e le truppe tedesche con uccisioni o attentati dinamitardi mirati; dall’altro, sostenere le agitazioni operaie ricorrendo alla lotta armata. Questi nuovi obiettivi “segnano anche per  Savona l’avvio della guerriglia urbana”. Ne sono protagonisti i GAP (Gruppi di Azione Patriottica), organizzazioni alle dipendenze del Partito comunista, con rarissime componenti azioniste e socialiste e, per lo più, invise ai democristiani e ai liberali.
    Il Partito comunista, originariamente contrario all’ideologia e alla pratica terroristica ma spinto ora dall’urgenza di fronteggiare l’occupazione e dalla necessità di spezzare il fronte nazifascista, cerca a fatica di convincere i militanti di base e i quadri delle fabbriche ad accettare il ricorso alla lotta armata e al terrore. Affida questa modalità d’azione ai gappisti, nuclei urbani composti da 4 o 5 individui selezionati e disposti a morire per la causa. Sono  uomini che vivono in clandestinità, separati dalla classe operaia da cui solitamente provengono. Definiti “soldati senza uniforme” e senza volto, colpiscono a sangue freddo i loro bersagli, studiano minutamente le abitudini del nemico per coglierlo di sorpresa nella quotidianità, quando si trova nelle vicinanze di casa, al cinema o al ristorante. Alla loro violenza selettiva corrispondono le feroci reazioni dei fascisti e dei nazisti che agiscono con violenza indifferenziata tanto su prigionieri politici e partigiani quanto sulla popolazione civile inerme, in un crescendo di ritorsioni.
    E’ quanto avviene a Savona, la sera del 23 dicembre, quando una bomba di grande potenza viene lanciata contro la “Trattoria della Stazione”, in via XX Settembre, luogo abituale di ritrovo di tedeschi e fascisti. Nell’immediato, l’ordigno provoca 6 morti (di cui uno iscritto al Partito fascista repubblicano) e 13 feriti, tra i quali 3 iscritti al PFR, un militare tedesco e il famigerato picchiatore squadrista Pietro Bonetto, persecutore accanito degli antifascisti savonesi.
    Nella notte fra il 23 e il 24 dicembre le autorità fasciste, sopraffatte dai tedeschi nella gestione degli scioperi, colgono l’occasione offerta dall’attentato per scatenare la prima gravissima rappresaglia urbana in città, assumendone interamente la guida. Per questo, da subito, effettuano arresti di cittadini semplicemente sospettati di simpatie antifasciste. Ma, contro il progetto di una “notte di San Bartolomeo” avanzata dai fascisti, gli occupanti scelgono la strada della “punizione esemplare” consistente nell’eliminazione fisica di alcuni tra gli antifascisti più noti e di maggiore autorevolezza ritenuti, in assenza di reali colpevoli, i “mandanti morali” dell’attentato. Il mattino del giorno di Santo Stefano viene così redatta una lista di 7 antifascisti da deferire al tribunale Militare Straordinario. Tra i prigionieri c’è chi è stato tradotto dalle carceri genovesi di Marassi (l’azionista Cristoforo Astengo) o savonesi di Sant’Agostino (i comunisti Francesco Calcagno, Carlo Rebagliati e Arturo Giacosa e i partigiani della “Stella Rossa” Aurelio Bolognesi e Aniello Savaresi) e chi è stato prelevato direttamente dalla sua abitazione (il cattolico Renato Vuillermin).
    Il 27 dicembre, alle ore 4.00, i sette prigionieri vengono tratti dal carcere di Sant’Agostino e, in catene, trasportati nella caserma della Milizia in Corso Ricci, dov’è allestito “in seduta straordinaria” il Tribunale Militare. La sentenza è pronunciata frettolosamente nella Sala del comando della Milizia. I prigionieri non sono né interrogati né imputati di alcun reato. Viene loro comminata la “condanna a morte mediante fucilazione” con “esecuzione immediata”, in quanto, appunto, “mandanti morali” dell’attentato.
    Alle 6.00 il furgone che ha prelevato i 7 antifascisti dal carcere riparte ora dalla Caserma della Milizia e si dirige verso il Forte della Madonna degli Angeli. Qui, i condannati sono attesi da un plotone di esecuzione di 40 militi, tra cui figurano 5 allievi ufficiali sotto il comando di Bruno Messa, Capo manipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Il Seniore della milizia, Rosario Previdera, ingiuria i condannati e, in segno di disprezzo, li obbliga a voltare la schiena. Ordina quindi il fuoco con la mitragliatrice. Tre militi sparano sui sette condannati. Astengo, Calcagno e Rebagliati sono soltanto feriti. Allora il Brigadiere di P. S. Cardunati li finisce a revolverate e scarica poi l’arma anche sugli altri quattro, già privi di vita.
    Nel “Natale di sangue”, a Savona, muoiono: due avvocati, Cristoforo Astengo e Renato Vuillermin, di 56 e 47 anni; Francesco Calcagno, contadino, di 26 anni; Carlo Rebagliati, falegname, 47 anni; Arturo Giacosa, operaio, 38 anni. Con loro vengono fucilati due soldati: Aurelio Bolognesi e Aniello Savaresi, di 31 e 21 anni.
    La sciagurata scelta di individuare tra i presunti colpevoli della bomba alla “Trattoria della stazione” una nutrita rappresentanza delle categorie socio-economiche presenti nel territorio, dai professionisti agli ex-soldati attraverso artigiani, operai e contadini, conferma una precisa realtà: la consistenza dell’antifascismo savonese, ben radicato, alla fine del ’43, presso tutti gli strati sociali. Un fenomeno di cui le autorità naziste e fasciste  hanno piena consapevolezza.

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