Partito comunista italiano (Pci)

  • Storia

    Partito comunista italiano (PCI) Il più grande partito comunista dell'Europa occidentale, fondato  nel 1921 e sciolto nel 1991.

    Le origini
    Partito politico fondato a Livorno nel gennaio 1921 nel corso del 17° congresso del PSI, per iniziativa della corrente di sinistra del partito guidata da A. Bordiga e A. Gramsci; assunse la denominazione di Partito comunista d'Italia - sezione italiana dell'Internazionale comunista, che sarebbe stata mantenuta fino al giugno 1943, quando fu modificata in Partito comunista italiano. I primi anni furono caratterizzati da una parte dalla sconfitta del movimento operaio e dalla reazione statuale e fascista, dall'altro dal rapido spostarsi del gruppo dirigente, guidato da Bordiga, sulle posizioni dell'ala sinistra dell'Internazionale. Ciò determinò il diversificarsi delle posizioni all'interno del partito e la decisione dell'Internazionale (1923) di sostituire la direzione bordighiana con un esecutivo che includesse l'opposizione di destra. Protagonista della bolscevizzazione fu Gramsci, che diede avvio a un nuovo corso (sancito dal congresso di Lione, 1926)  e consolidò la presenza del partito nella società. Con la promulgazione delle "leggi speciali" e l'arresto di Gramsci (nov. 1926), il PCd'I entrò nella clandestinità.

    Gli anni tra il 1927 e il 1943 segnarono per i militanti la stretta tra la clandestinità e l'esilio, soprattutto in Francia, dove il PCd'I fu presente nella concentrazione antifascista (strinse nel 1934 un patto di unità d'azione con il PSI, mantenuto fino al 1956). Nel 1927 la direzione fu di fatto trasferita a Mosca, dove emerse il nuovo gruppo dirigente attorno a P. Togliatti. Il partito tornò sulla scena politica nazionale nel 1943, svolgendo un ruolo importante nella lotta contro il nazifascismo. La ridefinizione della linea del partito ebbe luogo a partire dal ritorno di Togliatti in Italia (marzo 1944): messa provvisoriamente da parte la pregiudiziale repubblicana, Togliatti indicò al partito l'unità antifascista come premessa di un radicamento nella società che sarebbe scaturita dalla liberazione. L'idea guida di Togliatti era che la trasformazione socialista dell'Italia non dovesse avvenire per via rivoluzionaria bensì attraverso la progressiva ascesa delle masse popolari al governo della cosa pubblica. Conseguentemente il PCI fece parte dei governi dell'Italia democratica fin dal Regno del Sud e, dopo la liberazione, partecipò alla ricostruzione economica e politica ed estese la sua influenza nella società attraverso una capillare rete di sezioni territoriali; ebbe una cospicua presenza nella maggiore organizzazione sindacale ( CGIL), dispose di un diffuso organo di stampa (l'Unità), e fu costantemente presente negli enti locali. Escluso dal governo, insieme con il PSI, nel 1947, il PCI costituì da allora la maggiore forza politica di opposizione. La denuncia dello stalinismo operata da Chrusčëv nel XX congresso del PCUS e l'invasione sovietica dell'Ungheria (1956) costrinsero il PCI a un'ampia riflessione sulla propria strategia e sul socialismo realizzato: nell'VIII congresso ( 1956) il partito  iniziò a prendere le distanze dall'unitarismo di stampo sovietico prevalente nel movimento comunismo mondiale, accentuando sul piano della politica interna gli aspetti democratici e gradualisti già presenti nell'elaborazione togliattiana ("via italiana al socialismo").

    Berlinguer e il "compromesso storico"
    Con L. Longo, che successe alla segreteria del partito alla morte di Togliatti (1964), il PCI colse il successo del 26,9% nelle elezioni del 1968. La stagione delle lotte operaie e il processo di unità sindacale, nonché lo spostamento a sinistra della pubblica opinione, determinarono nei primi anni Settanta nuove attenzioni e aspettative verso la politica del PCI , cui il nuovo segretario E. Berlinguer rispose con il 'compromesso storico' (1973), proposta di collaborazione con le forze cattoliche e socialiste per il rinnovamento del paese. La proposta, dopo le ulteriori affermazioni elettorali del PCI (tra queste, il 34,4% nel 1976), si concretizzò dapprima nell'accordo sull'astensione al governo presieduto da G. Andreotti (1976), poi sul voto al nuovo monocolore Andreotti, inaugurato nel giorno del rapimento di A. Moro (marzo 1978). La fase di "solidarietà nazionale" ebbe termine nel 1979 con la decisione comunista di uscire dalla maggioranza, mentre iniziava un trend elettorale negativo. Sul terreno internazionale, l'invasione sovietica dell'Afghānistān (1979) e la proclamazione della legge marziale in Polonia (1981) segnarono un'ulteriore differenziazione dall'URSS (già nettamente criticato per l'intervento in Cecoslovacchia nel 1968), con la dichiarazione di Berlinguer circa l'esaurimento della "spinta propulsiva" dell'Ottobre sovietico (1981) e la sottolineatura del nesso necessario fra democrazia e socialismo.

    Lo scioglimento del partito
    Nel 1984 moriva Berlinguer, cui seguì nella carica di segretario generale A. Natta. Il dato elettorale continuò a evidenziare una fase di grave difficoltà con un calo di consensi al 26,6% nel 1987.  Anche in seguito al crollo del comunismo nei paesi dell'Est europeo il PCI, sotto la guida di A. Occhetto avviò una profonda fase di trasformazione, culminata nel 1991 nello scioglimento del partito e nella contestuale costituzione del Partito democratico della sinistra. L'ala più intransigente, contraria al cambiamento, diede vita al Partito della rifondazione comunista.

    https://www.treccani.it/enciclopedia/partito-comunista-italiano/

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