Azienda escavatrice di marmo, zona Palmaria-Portovenere (cava Vissei Palmaria).
Il marmo, detto per tradizione « di Porto Venere » o « portòro » a fondo nero con venature gialle-oro, di notevole valore decorativo, costituisce, in effetti, un gran filone che partendo dai colli della Foce sale fino alla Castellana e al Muzzerone, scende a costituire l’ossatura della penisoletta sulla quale è costruito in gran parte l’antico borgo genovese, attraversa la rupestre costiera occidentale della Palmaria e finisce praticamente sotto gli strati dolomitici fortemente inclinati dell’isola del Tino.
Detto marmo fu conosciuto, a quanto pare, dai romani dopo la fondazione di Luni nel 177 a.C. e ne parla il geografo Strabone in uno dei suoi libri. La sua escavazione nella zona prospiciente a Porto Venere fu piuttosto attiva durante la Repubblica Genovese e lo dimostra l’uso che ne è stato fatto nelle storiche chiese di Genova e delle riviere. Superbe, ad esempio, le quattro massicce colonne che nella chiesa ambrosiana cinquecentesca del Gesù (attigua a piazza de Ferrari) fanno degna cornice, sull’altare maggiore, al grande quadro della Circoncisione del Rubens.
Ma, se ben ricordo, prima del 1900 tale industria trovavasi in piena decadenza. A Porto Venere molti blocchi di provenienza dal vicino Muzzerone, giacevano abbandonati sulla spiaggia e servivano da comodo sedile a vecchi, donne e bambini nei loro ozi riposanti al tepido sole invernale, o nella frescura dell’estivo maestralino pomeridiano...
Furono due giovani, il geometra Raffaele Ragghianti di Porto Venere e l’ingegnere Giulio Faggioni della Spezia, legati dall’amicizia indissolubile che si contrae nei banchi della scuola, a determinare, per l’appunto sul principio del secolo la rinascita dell’industria escavatrice del marmo nel lato occidentale del Golfo. E ciò in seguito alla felice idea di rendere espletabili gli affioramenti del prezioso filone, dapprima nella punta sud-occidentale dell’isola Palmaria, eppoi al Tino, applicando i nuovi sistemi delle seghe meccaniche a nastro utilizzate nelle cave di Carrara. L’iniziativa, che richiese anni di paziente e faticosa ricerca, fu coronata da pieno successo sia alla Palmaria che al Tino e servì a richiamare l’attenzione sulle nuove possibilità del « marmo di Porto Venere » di gruppi industriali carraresi e della Spezia.
Oggi l’antica industria del portoro ha ripreso un posto notevole nella economia del Golfo, pur avendo risentito delle soste e delle devastazioni di due grandi guerre. Ho ritenuto di far cosa buona ricordando la parte che vi hanno avuto due benemeriti lavoratori della regione: il Faggioni che ne fu la mente direttiva ed organizzatrice, il Ragghianti che amerei chiamare il braccio esecutore dell’impresa. « Mente et malleo », con la mente e col martello, sarei portato a dire, come nel motto che fu guida a Giovanni Capellini, del quale furono ambedue amici ed estimatori.
Ragghianti ha chiuso gli occhi alla visione aspra e pittorica delle sue rocce durante l’ultima guerra. Giulio Faggioni, che nei suoi cinquanta e più anni di attività, dopo la laurea conseguita a Torino aveva esteso il suo campo di lavoro anche alla lavorazione dei marmi di ogni tipo in un suo proprio laboratorio, si è spento alla bella età di 94 anni a Marina di Carrara, all’alba del 1966. Nutrito nelle scuole della Spezia di una profonda cultura classica, coltivò, accanto alla professione dell’ingegnere, l’amore per gli studi umanistici e letterari. Recitava a memoria, fino a tardissima età, Dante e Carducci. Ma si considerava, soprattutto, una cosa sola con i suoi dipendenti lavoratori. Difatti, è morto al suo posto di comando, nell’officina ch’era ad un tempo la sua abitazione.
Figure della vecchia Spezia e del suo piccolo mondo che scompaiono. Nell’ambiente in cui vissero ebbero il merito di portare più di una pietra all’edificio dell’economia del Golfo, che stenta a raggiungere, nella bufera degli interessi in contrasto, il suo definitivo assestamento.