Fondazione Carlo Donat-Cattin - Polo del '900

Minuta di lettera di Carlo Donat-Cattin al direttore de «Il Letimbro» di Savona Silvio Sguerso, Roma 7 marzo 1973

Unità archivistica
  • Segnatura archivistica

    FCDC TO Archivio Carlo Donat-Cattin 921

  • Data

    07/03/1973

  • Contenuto

    "Mi giunge il n. 8 del settimanale che Ella dirige, con la segnalazione di un dibattito nella Dc savonese su relazione dell'amico on. Russo.
    Credo che l'estensore, Giovanni Marino, sia incorso in qualche fraintendimento perché conosco l'attenzione e l'onestà politica di Russo e non penso che egli abbia riferito cose non vere.
    Secondo Giovanni Marino il dibattito si è sviluppato sul discorso di Fanfani, alle tesi del quale hanno dato "largo consenso"... "Rumor, Piccoli, Colombo, Moro; contrari Spagnolli, Donat-Cattin".
    Le tesi di Fanfani sarebbero state: a) il governo Andreotti è di necessità e si deve sostenere fino ad un chiarimento; b) aprire subito il dialogo con i socialisti; c) eventualità di cambio del governo prima del congresso o "incontro problema per problema".
    A parte l'interpretazione piuttosto schematica e approssimativa delle posizioni di Fanfani, è noto che, nella votazione conclusiva, il voto di Forze Nuove e quindi il mio è stato identico a quello di Moro. Che cosa ha proposto in sostanza Fanfani? Di riprendere il dialogo con i socialisti. Non capisco come i miei amici ed io possiamo esserci dichiarati contrari o esser ritenuti tali da chi conosce le nostre posizioni; ed è veramente difficile trovare una contrapposizione tra quello che noi abbiamo sostenuto e quel che ha sostenuto Moro. È perfino una forzatura contrapporci alle riservate e cautelose aperture di Colombo e Rumor, verso le quali ci siamo espressi con favore e sollecitazione.
    Nell'occasione devo precisare che è inesatto il riferimento che viene fatto nella stessa cronaca ad una sentenza della Corte Costituzionale come contrastante con l'emendamento Fracanzani, mio e di altri 12 amici all'art. 3 del d.d.l. sui fitti dei fondi rustici.
    Quell'emendamento corrisponde alla linea regionalistica del partito; raccoglie la parte che riteniamo valida delle critiche portate avanti per tutta la campagna elettorale da quanti volevano che si rivedesse la legge De Marzi-Cipolla, in primo luogo dal presidente del Consiglio. Cent'anni fa Stefano Jacini nella prima inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno già sosteneva potersi fare una politica dell'agricoltura nel nostro paese soltanto su basi regionali. E sarebbe davvero sorprendente e se mi è lecito, un tantino avventuroso e scorretto quell'on. Andreotti che agli elettori va raccontando di voler regionalizzare la questione dei fondi rustici, ma - passata la festa elettorale - deve purtroppo render noto che quel che ha predicato è impossibile perché anticostituzionale.
    Fortunatamente le cose non stanno così, nonostante una frettolosa e apodittica dichiarazione dell'on. Andreotti a Panorama. Fortunatamente l'emendamento Fracanzani non trasferisce alla Regione materia che non le è propria, perché si limita ad applicare non il primo comma dell'art. 117 della Costituzione ("La Regione emana per le seguenti materie norme legislative etc.), bensì il secondo comma: "Le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione".
    Di norme di attuazione, dunque, si tratta, sulle quali e contro l'assegnazione delle quali alla Regione non v'è traccia di sentenza della Corte Costituzionale.
    Una Corte chiamata in ballo da nostri amici, in verità, per coprire il veto del Partito Liberale. L'on. Bignardi non aveva avuto tanta precauzione quando al suo congresso affermò che l'art. 3 non si tocca.
    Dal punto di vista del metodo, noi preferiamo quello dell'on. Bignardi, duro, ma preciso e chiaro. Occorreva verificare se avrebbe involto un problema politico più grosso, cioè l'alleanza di governo.
    Se il problema non aveva quel rilievo, non si vede perché non potesse valere la prassi della "libertà parlamentare", quando all'interno del Direttivo del gruppo Dc si contrapposero soltanto argomenti senza consistenza, come quello dell'incostituzionalità (che riguarda altri punti), e furono respinte proposte ragionevoli come quella avanzata dal fanfaniano on. Ciaffi. Atteggiamenti divergenti, su questioni che non coinvolgono la vita della maggioranza, ma sono propri in una tradizione secolare dei parlamentari più antichi, da Westminster e Palazzo Borbone.
    Le rigide contrapposizioni politiche da guerra fredda, e il malcostume delle imboscate con i voti segreti senza dichiarare posizioni che possono spiegare la facile reazione che si ottiene accusando d'ogni sorta di delitti chi fà un corretto uso della libertà parlamentare. Ma il suo contrario significa in misura assai larga l'inutilità del Parlamento, che potrebbe allora essere sostituito da otto o dieci capintesta con un pacchetto di azioni o un gruzzolo di fiches in mano. Esiste, invece, una questione che intacca i principi propri del partito? Si avvisa chi mostra di dissentire perché sappia che si mette fuori dal gruppo politico al quale è legato. Non era questo il caso, perché sulla linea del partito eravamo noi. Esiste una questione che tocca gli accordi di governo e ne può compromettere la continuità. Esiste per quell'aspetto l'istituto del voto di fiducia, che, altrimenti, non si capisce a cosa servirebbe.
    Ma non si può fare una imposizione formalistica di disciplina da caserma senza toccare valori essenziali del sistema parlamentare.
    Noi abbiamo puntualizzato la nostra posizione scrivendo al presidente del gruppo Dc della Camera, abbiamo ricordato la man salva data a ben diverse precedenti operazioni e ricordato che ogni nostra posizione è sempre stata assunta a voce alta e a fronte alta per rispondere a una concezione della Democrazia cristiana nella quale ci dev'essere posto per i lavoratori non soltanto, ma come obbiettivo la loro partecipazione di protagonisti allo Stato, che perciò - immettendo gli esclusi - diventa democratico.
    È la concezione che ha fatto trovare talvolta noi stessi guidati da Giulio Pastore in dure posizioni di richiamo e di contrasto e che ancor oggi emerge.
    Quello in esame era un punto di verifica: di quanto i liberali contrastino con la linea naturale del nostro partito; in qual misura sia arretrata l'impostazione che ne nasce. Basterà tener conto che tutta l'Europa della CEE ha norme e leggi in agricoltura che spianano la rendita a favore dell'impresa contadina; a difender la rendita siamo rimasti noi soli. Si trattava e si tratta questa volta di una posizione, la nostra, non rivolta a promuovere gli interessi di lavoratori dipendenti, dell'impresa agricola, nella gran parte dei casi di imprenditori-lavoratori. Si trattava e si tratta questa volta di riconoscere la funzione positiva che le Regioni possono avere in una nostra più democratica ed avanzata concezione dello Stato.
    Per questi motivi pensiamo di avere diritto ad un dibattito serio anziché a un biglietto di contravvenzione per voto vietato".


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