All’inizio del ‘900 gli Schiapparelli, storica famiglia di farmacisti torinesi, decidono di espandere le proprie attività attraverso la costruzione di un moderno stabilimento chimico-farmaceutico nella zona di Settimo torinese. Collocato strategicamente rispetto alla linea ferroviaria Torino-Milano e alla configurazione idrologica dell’area (falde di modesta profondità e abbondanza di canali di superficie), il complesso viene terminato nel 1907 per occupare circa 60'000 metri quadri.
Inizialmente impegnato nel settore di farmacologia inorganica e organica, la Schiapperelli Società Anonima produce anche alcol etilico, al tempo utilizzato in campo industriale come alimentare. Rapidamente, le vicende belliche italiane spingono l’azienda a cominciare a produrre sostanze di diretto uso militare consentendo una significativa crescita dell’impresa e dei suoi livelli occupazionali: nel 1918 si contano 280 dipendenti e l’anno successivo il capitale sociale viene aumentato a 20 milioni di lire per raggiungere poi i 45 milioni grazie a una serie di acquisizione di ditte minori. La debolezza generale dell’industria chimica italiana si fa però pesantemente sentire su una ditta di dimensioni piuttosto modeste come la Schiapparelli, limiti che vengono aggravati dalle importazioni tedesche di medicinali che costituiscono una parte delle riparazioni di guerra della Germania. Nel 1936, proprio a causa di difficoltà finanziarie ed economiche, l’impresa viene acquisita da una joint venture della Montecatini e dell’impresa francese Rhône-Poulenc: nasce ufficialmente la Farmaceutici Italia.
Anche se gli effetti della politica autarchica promossa dal fascismo restano piuttosto ambigui, la seconda guerra mondiale fornisce un nuovo slancio, lo stabilimento di Settimo viene decretato “ausiliario” per la produzione bellica e continua a produrre per tutto il periodo del conflitto.
Nel dopo-guerra l’azienda conosce un notevole sviluppo della produzione farmaceutica, nel 1950 si producono 87 specialità di medicinali tra cui antitubercolari, antimalarici, ricostituenti, tranquillanti ma anche prodotti destinati all’industria alimentare e prodotti inorganici per uso topico. È in questo periodo che l’azienda prende il nome di Farmitalia e apre un nuovo stabilimento a Milano che diventa la sede principale del gruppo con 700 dipendenti. Nel decennio successivo la Farmitalia si lancia nella produzione di antibiotici per via fermentativa, una scelta lungimirante che porta la società a rinnovare i propri impianti ed espandere lo stabilimento di Settimo, conformemente alle necessità dettate dai nuovi processi produttivi, in particolare proprio dagli apparecchi di fermentazione che necessitano volumetrie più consistenti. Dai 60'000 metri quadri iniziali si passa quindi a 180'000 e l’azienda abbandona progressivamente le precedenti produzioni configurandosi come un impianto di avanguardia che supera ormai i mille dipendenti. Un’espansione che marca profondamente il territorio settimese non solo in senso positivo, i rifiuti tossici riversati dall’industria impestano infatti i rivi Frediano e San Gallo, al punto che l’Ufficio di Igiene e Sanità di Torino nel 1959 è costretto a emanare una nota che intima agli abitanti di non utilizzarli.
Proprio in reazione alle nocività della produzione chimica, all’inizio degli anni ’60 comincia alla Farmitalia una delle esperienze di lotta sindacale tra le più significative di tutto il dopo-guerra. Nonostante le innovazioni impiantistiche, gli ambienti di lavoro sono in effetti assolutamente inadeguati a preservare la salute dei lavoratori e persino in caso di sintomi evidenti, come le dermatiti, viene negato il nesso con le lavorazioni eseguite dalle maestranze – senza contare il mancato riconoscimento degli effetti a medio e lungo termine. Viene tutt’al più corrisposta un’indennità per “disagiata lavorazione” per le produzioni più tossiche, la maggior parte delle quali si svolgono nelle officine che affacciano su un viale interno significativamente soprannominato dagli operai via asti, come la strada della caserma fascista dove venivano torturati i partigiani. Dal 1961, in particolare grazie all’intervento di un giovane medico, Ivar Oddone, viene completamente ribaltata questa posizione di subalternità dei lavoratori. Nel quindicennio successivo i lavoratori della Farmitalia sono protagonisti di un radicale cambiamento nell’approccio alla salute sui posti di lavoro: si parte ormai dal principio che non ci si può limitare alla monetizzazione dei rischi (“la salute non si vende”) e che devono essere i lavoratori in prima persona a giudicare gli effetti nocivi dell’ambiente di fabbrica sui propri corpi (principi della “non delega” e della “validazione consensuale”). Una rivoluzione copernicana che porta i suoi frutti a livello contrattuale riuscendo ad imporre, per la categoria dei chimici, rivendicazioni che saranno integrate solo successivamente per le altre categorie di lavoratori come, ad esempio, la possibilità di arresto degli impianti in caso di superamento dei limiti di concertazione di alcune sostanze tossiche e il riconoscimento di rappresentanze sindacali nella definizione delle misure di prevenzione e sicurezza.
Nel frattempo l’assetto societario della Montecatini è cambiato, nel 1966 assistiamo alla fusione con la Si-Edison e alla nascita del colosso Montedison, successivamente al ritiro del gruppo Rhone Poulenc dalla partecipazione societaria.
Nel novembre 1971 la Montedison acquisisce la Monte Erba, storica azienda farmaceutica milanese, rinforzando ulteriormente la propria presenza nel settore. Nel 1978 le due aziende farmaceutiche della Montedison si fondono sotto il nome di Farmitalia Carlo Erba (FICE). L’acquisizione porta a una riorganizzazione produttiva integrata tra i due poli che conferma la vocazione della Farmitalia nella produzione di antibiotici fermentativi ai quali si erano già aggiunti steroidi, alcoidi e prodotti anti-tumorali. Negli anni ’80 viene anche rilevata la ditta spagnola Antibioticos, nome che sarà applicato anche agli stabilimenti di Settimo. Già dalla fine degli anni Ottanta però le attività del polo torinese cominciano a ridursi drasticamente per arrivare a poche centinaia di addetti negli anni 2000.